Verso una teologia sociale. Alcuni elementi introduttivi
Possiamo esplicitare il compito della teologia sociale ponendoci le questioni seguenti: come sí costituisce l'interpretazione credente del vissuto civile (nelle sue molteplici e differenziate espressioni), interpretazione che per sua natura mira a esplicitare il senso, ad indicare la norma e il comportamento giusto, e ad animare visioni progettuali?
Come approntare una teoria che permetta di attuare nella società odierna la visione della dottrina sociale della chiesa? O di ridare un ruolo pubblico alla chiesa? Sulla base di quali presupposti sono possibili un confronto ideale e una collaborazione pratica tra cattolici e “laici”? Sono i diritti umani candidati 'naturali' alla comprensione morale cristiana della società contemporanea? Come è possibile universalizzare o rendere plausibili le scelte e glì orìentamenti socìali che i credentì pretendono siano ispirati dalla fede, e quali sono il senso e la portata dì una tale influenza? Come si distinguono i cristiani e i non cristiani neI concreto agire politico, economico, culturale? Come realizzare qui e ora il rapporto tra evangelizzazione e promozione umana?
Più in generale ancora: che cos'è rapporto «sociale»? che cosa deve quindi intendersi come «giustizia» in accezione propriamente sociale? come pensare il rapporto tra tale accezione sociale e l'accezione propriamente cristiana della giustizia?
Senza la pretesa di delinearne la figura completa, intendiamo svolgere alcuni punti introduttivi della teologia sociale che permettano di far intravedere un campo promettente e non ancora sufficientemente esplorato. A questo proposito è necessario mettere a fuoco innanzitutto la natura teologica della teologia sociale che ha per oggetto la questione della prassi credente nel sociale (1.). Tale prospettiva è connotata costitutivamente da un carattere pratico (2.) e interdisciplinare (3.). Tenendo presente che la teologia e le scienze umane hanno linguaggi, presupposti e finalità diverse, è possibile stabilire una comunicazione tra tali saperi in riferimento alla visione antropologica (4.5.6.) e in termini discorsivi-argomentativi comprensibili da tutti gli uomini di buona volontà (7.).
1. Intelligenza critica ed ecclesiale della prassi sociale
Le varie discipline teologiche si caratterizzano da una parte per il comune riferimento alla Rivelazione che dà unità alla teologia, e dall'altra per l'intenzionalità di comprendere la Rivelazione sotto aspetti diversi, secondo le esigenze intrinseche alla Rivelazione riconosciute nel contesto storico del "popolo di Dio" .
Tutte hanno come habitat la Chiesa, in quanto sono comprensione critica della fede caratterizzata in senso ecclesiale. Per svolgere la ricerca critica sollevata dalla fede occorre essere nella Chiesa: il senso della Chiesa è il criterio interno alla teologia per necessità logica.
Il servizio della teologia all'edificazione della Chiesa nella verità della Rivelazione consiste nella funzione di conoscenza critica svolta attraverso la partecipazione attiva alla vita della Chiesa, con un amore lucido che non oscura l'obiettività ma denuncia i limiti perché siano superati. Le discipline teologiche svolgono la funzione di coscienza critica nella Chiesa che è determinazione storica della Rivelazione, né superflua né facoltativa.
All’interno delle discipline teologiche va considerata la teologia sociale: essa ha come oggetto materiale il rapporto Chiesa società storica e contemporanea, come oggetto formale la prospettiva teologico-pratica, e come metodo quello del discernimento ispirato dalla fede .
La teologia sociale, oltre il compito di esprimere il rilievo della società concreta per la fede cristiana, è chiamata ad investigare la razionalità della scelta pratico-sociale del credente, all’interno della logica di un pensiero basato sul dono grazioso di Dio. Tale compito va adempiuto tenendo presente che «spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d'azione nell'insegnamento sociale della Chiesa...» (Octogesima adveniens, n. 4). Paolo VI non menziona espressamente, tra le risorse delle quali le comunità cristiane debbono avvantaggiarsi in ordine alla realizzazione del compito che viene loro riconosciuto, la teologia. Ma certo non l'esclude. Sembra a noi che, specie nelle contingenze presenti, debba essere riconosciuto importante il compito della comprensione credente del vissuto sociale contemporaneo. La complessità della realtà sociale contemporanea, e delle interpretazioni molteplici e disperse che di essa vengono proposte a livello di cultura pubblica, rende proporzionalmente più urgente la teologia sociale, cioè un'istruzione riflessa dei problemi, quale non può prodursi attraverso la semplice comunicazione tra i credenti di fatto impegnati ai diversi livelli dell'esperienza sociale.
Scopo della teologia sociale rimane quello di comprendere la realtà sociale alla luce della fede cristiana e offrire strumenti concettuali per sostenere una prassi di testimonianza a tutti i livelli: individuale, associativo ed ecclesiale.
I teologi rappresentano così una risorsa per elaborare un ideale storico di società ispirato all’Evangelo. Rimane vero che non sono essi, né gli intellettuali in genere, né è il magistero per se stesso, che elaborano tale ideale concreto, attraverso lo studio teorico della realtà sociale; ma è, più radicalmente, la pratica cristiana del rapporto sociale che genera in forma almeno virtuale le competenze necessarie in ordine all'invenzione di un futuro storico-civile buono. Il giudizio cristiano sulla società presente, molto prima e molto più di quanto sia espresso nella forma di asserti determinati del ministero pontificio ed episcopale, è virtualmente espresso dalla realtà stessa della Chiesa, dalle forme di comportamento e di testimonianza dei suoi membri, dalle forme della preghiera e della celebrazione .
In sintesi i compiti della teologia sociale possono essere determinati in questi termini generali: la chiarificazione concettuale dell'idea di società, la riflessione teologica di carattere fondamentale intorno al fatto sociale considerato sull'arco intero del destino storicocivile dell'umanità, la comprensione cristiana della società contemporanea .
Si tratta di una riflessione teologica sul fenomeno sociale e sull'agire cristiano nella società. Tale riflessione è strettamente connessa alla dottrina sociale della Chiesa, alla teologia pastorale e alla morale sociale: con esse interagisce.
Ed è pure coinvolta la teologia fondamentale non solo nel senso che essa rileva, interpretandolo, il contesto storico (contemporaneo) dell'atto di fede, ma nel senso che essa mostra come la fede cristiana è risposta ad una storia attuata e testimoniata, della quale Dio è il Signore mediante Gesù. Si delinea in tal modo anche lo spazio dell'ecclesìologìa, del soggetto chiesa che vive di fede e così interpreta, agendo, la società in ogni sua dimensione in rapporto alla testimonianza di Cristo.
Dalla relazione chiesa società nascono immediatamente quelle domande che trovano riflessione appropriata nella teologia sociale. Se questa è riflessione fondamentale sul vivere civile, nell'orizzonte del sapere critico della teologia cristiana, la DSC non può essere ricondotta immediatamente alla teologia sociale: la teologia non ha il compito precipuo di emanare dottrine ma di elaborare ricerca, e non intende impegnare direttamente la Chiesa, quanto offrire il proprio contributo di scientificità a servizio dell'intelligenza della fede. Con ciò non si vuole suggerire una sorta di «depotenziainento» della DSC a vantaggio della riflessione teologica; viceversa, si vorrebbe piuttosto segnalare l'esigenza di un congruo rilancio della riflessione teologica inerente al sociale o teologia sociale, la quale si determina nella teologia morale sociale e nella teologia pastorale: queste non pare godano sempre dell'attenzione che loro compete. Ciò permetterebbe di attivare e approfondire una feconda circolarità in molti modi auspicata dalla Chiesa stessa. La notissima espressione secondo cui la DSC «appartiene... al campo della teologia e, specialniente, della teologia morale” (SRS 41, CA 55, VS 99) esplicitamente ripresa dal Compendio (n. 72), invita a mettete anzitutto in luce le profonde e solidissime radici comuni a DSC e riflessione teologica sulla società (essenzialmente radicamento fondamentale nella rivelazione biblica e riferimento imprescindibile alla tradizione ecclesiale; entrambe sono infatti ermeneutica credente della società), cogliendo il rispettivo proprium nel differente approccio specifico (il discernimento magisteriale in un caso, la ricerca scientifica nell'altro), valorizzandone quindi il dialogo e l'intreccio, evitando invece, come spesso accade, di attribuire pervicacemente all'una o all'altra ciò che in realtà è dominio comune a entrambe nel tentativo di differenziarle ad ogni costo per ricercare poi, solo a quel punto, le convergenze possibili .
Si ribadisce così l'esigenza di una più vasta attenzione del sapere della fede, in tutte le sue forme, al fenomeno socio-culturale quale luogo teologico; all'interpretazione cioè del costume e delle modalità del costituirsi dei giudizi sull'uomo e sulle complesse dinamiche che lo strutturano, in quanto giudizi mediati sempre da una società e da una cultura, e obiettivamente iscritti in esse. La teologia sociale cerca di dire il modo di cogliere la verità nelle forme pratiche dell'esperienza civile, quindi di fare emergere îI fondamento: in questo senso una buona teologia sociale non può sottrarsi alla fatica della teoria, né semplicemente rimandare ad altri trattati.
La teologia sociale non può eludere il compito di un'elaborazione, svolta con “la forza argomentativa che nasce dalla sua plausibilità razionale” , del rapporto della fede con la società sempre più intesa dalla cultura dominante quale sistema rigido ed estraneo. Si tratta del compito di un'istruzione del senso dei rapporti sociali, nel quale si può dire che l’esperienza sociale ha rilevanza per la fede, in modo da superare l'estraneità della coscienza individuale nei confronti dell'oggettività sociale .
La teologia sociale non può limitarsi ad offrire risposte "cristiane" a questioni non sufficientemente elaborate sotto il profilo propriamente teologico: deve riformulare la questione sociale in modo più univoco e argomentato, superando la semplice citazione dei luoghi comuni.
Una obiettiva difficoltà ad interpretare teologicamente il vissuto civile è rappresentata dalla tendenza dominante ad emarginare dalla costituzione di senso dell'esperienza sociale la questione del bene, per lasciarvi quasí solo quella del giusto senso del civilmente corretto: il dato della pluralità e della differenziazione degli attori sociali suggerisce, per un verso, la necessità di abbandonare l'idea di una loro unificazione attorno ad un contenuto sostantivo di bene e, per un altro verso, l'ipotesi di reperire tale unificazione a livello di procedura formale che, proprio per la sua neutralità, dovrebbe essere in grado di intercettare l'approvazione di tutti gli attori sociali.
Ora il compito della teologia sociale rimanda alla necessità di reimpostare la questione sociale ripensando l’esperienza sociale nell’orizzonte del bene che è universale e accomuna, pur senza omologare le differenze culturali.
Si tratta di cogliere una figura di bene come un principio regolativo che, essendo “assoluto”, non dipende da nessuna cultura ma tutte in qualche modo le pervade, anche se inevitabilmente si manifesta e viene alla sua matura coscienza all'interno di esse. Un principio regolativo che non chiede alle varie dottrine comprensive di annullarsi, ma di accettare di entrare in relazione con l'ulteriorità di un elemento “assoluto” che si manifesta come inviolabilità dell'essere umano e della sua dignità .
In tal modo la teologia sociale non difende una visione di bene perché esso è di una determinata cultura, ma perché è più conforme a tutte le culture disponibili a non permanere in una autosufficienza e in un'autosicurezza illusorie . Il Cristianesimo, a sua volta, non si comprende come europeo, ma come quella religione nella quale non ci sono più "né giudei né greci, né uomo né donna, né schiavi né liberi" .
Essendo inserita in una tradizione vivente e riflessiva, la teologia sociale può essere descritta come un’argomentazione estesa storicamente e incarnata socialmente: è un continuo processo di interpretazione e reinterpretazione che cerca di coniugare il momento dell'universale con quello della particolarità. L'insieme dei due momenti ermeneutici pone in essere, perciò, quell"tmiversale concreto' del bene Assoluto che ha la sua cifra nella persona umana come essere sociale. In altri termini, la teologia sociale presuppone una particolare serie di comprensioni sulla persona umana e sui beni sociali, fondate su una vivente relazione alle narrazioni costitutive provviste dalla Bibbia e integrate in una struttura teorica che rende possibile alla comprensione cattolica di rimanere aperta alla spiegazione razionale e al pubblico dibattito.
2.La dimensione pratica
Tutta le teologia è scienza pratica nel senso che è una figura del sapere critico (scientifico) che non può definirsi né esercitarsi che sul fondamento di una decisione (fede) già di fatto intervenuta nella vita del teologo. La qualità pratica del sapere teologico comporta il coinvolgimento della libertà per venire a capo della verità: è sapere alla cui origine stanno evidenze delle quali il credente già praticamente vive. La “teoria” nasce suscitata dall'interrogazione che muove dalla scelta concreta (esperienza), anteriore ad ogni ricognizione teorica di essa, e si prospetta come ritorno riflessivo (contro la concezione “dottrinalistica” della Rivelazione) su evidenze che soltanto la fede in atto del soggetto può attingere .
Tale carattere pratico di tutta la teologia acquista più cospicua e metodica evidenza quando la teologia si occupa esattamente della prassi della fede, cioè della fede come azione umana e di ogni agire umano in quanto procedente dalla fede. In tal caso si parla di teologia pratica quale teoria critica dell’agire ecclesiale nel cui ambito si collocano la DSC e la teologia sociale, la teologia morale e la teologia pastorale.
La dimensione “pratica” della teologia sociale fa riferimento al singolo credente e ancor di più all'intera comunità cristiana, e, se è vero che le questioni sociali che interpellano la Chiesa sono interpretabili certamente da un punto di vista etico, la prassi richiesta e conseguente necessiterà di una riflessione che si ponga sia da un versante morale sia da un versante pastorale .
La dimensione «pratica» implica poi l'approccio delle questioni attraverso la necessaria descrizione fenomenologica e il pensare l'azione trasformatrice della società attraverso l'opera e le opere dei cristiani. In questo senso la teologia sociale riflette sulla missione della Chiesa e necessita un rapporto stretto sia con la DSC che con la morale sociale e la teologia pastorale.
E’ illuminato così anche il raccordo tra teologia sociale ed ecclesiologia; la prima prende come proprio referente immediato e come oggetto diretto la `questione sociale', nella comprensività dei suoi diversi livelli, ed è tenuta a sentire il rìchiamo della chiesa come soggetto primario della elaborazione del rapporto fede società, pena la dimenticanza di importanti acquisizioni, riconosciute autorevolmente in Octogesima Adveniens ed Evangelii Nuntiandi. Senza questo raccordo la teologia sociale (e la teologia pratica in genere) mirata apologeticamente ad extra, destinata cioè anzitutto a convincere che il cristianesimo è capace di assumere e affrontare la questione sociale contemporanea, è meno attenta ad una elaborazione riflessa della fede a partire dalla prassi credente. Questo spiega il fatto che la teologia pratica sia sovente concepita meno come momento della riflessione sulla verità cristiana e più come uno “strumento”, da offrire infine ai laici, e in particolare a quelli più direttamente impegnati nel sociale o nelle varie forme del cosiddetto apostolato d'ambiente .
Lo stesso richiamo ad una elaborazione del fondamento dell’esperienza sociale deve apparire non come momento preliminare o iniziale, e quindi comunque preparatorio alla produzione della norma di comportamento e del fare progettuale; si tratta piuttosto di riconoscere le questioni, identificandone il nucleo veritativo e mostrando come esso richiami l'impegno delle persone (singoli e gruppi, dunque anche istituzioni, che sono in radice modi di agire collettivo). Ciò non richiude affatto la riflessione teologica nella contemplazione di un fondamento già dato e solo da esibire, ma introduce e abilita all'azione come momento impreteribile della verità-fondamento della vita umana. Certo su questa linea la riflessione teologica dovrà riconoscere e rispettare limiti precisi: quelli del conflitto sociale, quelli della propria docta ignorantia (il metodo e la teoria proposti non permettono di parlare di tutto: il che non è per altro verso compito della teologia), quelli della legittima autonomia del sapere e dell'agire che organizzano la vita sociale secondo le forme deÌÌa cultura e del sapere contemporanei. Il messaggio cristiano e la teologia che lo pensa non esauriscono la conoscenza dell'esperienza sociale, né producono da sé le strutture e i rapporti storici nei quali essa vive. Si segna in tal modo i limiti della teologia sociale, superando i quali essa si distrae, e si disegna lo spazio e la necessità dell'assunzione di elementi culturali. La mancata esecuzione di questo compito non rende solo “inattuale” la teologia, marginalizzandola nel contesto culturale, ma impoverisce l'esercizio della ragione teologica.
Del resto la prassi della Chiesa s'inserisce e avviene nel dinamismo storico delle questioni sociali di cui s'interessa la teologia sociale e in cui si intecciano precomprensioni e teorie attraverso avvenimenti storici complessi. Partendo dalla concezione di prassi come luogo originario di elaborazione della teoria stessa (sapere e libertà) e non come attuazione successiva di dati prestabili dalla teoria, ne deriva che l'esigenza di tradurre i principi in imperativi non avviene per semplice deduzione dal principio. La teologia sociale è l'organizzazione scientifica della riflessione teologica sulle modalità in cui l'attuazione dei principi deve svolgersi nelle singole situazioni storico-sociali: la fede non ha solo un valore fontale e iniziale, ma permanente e relativo all’esperienza sociale concreta (CA n.53). Diventa necessario affrontare la questione del metodo della teologia sociale.
3. La dimensione epistemologica
Si tratta di definire più compiutamente un metodo teologico, quindi un modo di procedere teologico riguardo ai fatti sociali che sappia, secondo l'oggetto in questione, elaborare un sapere che possa, nella sua specificità e peculiarità, esprimere giudizi etici, valenze pastorali, competenze tecniche. La dinamica sociale domanda questo tipo di approccio.
Una teologia sociale che voglia essere teologicamente capace di affrontare e intervenire sulle problematiche complesse e in continua trasformazione deve potersi dotare di queste capacità argomentative. Nello sforzo di chiarificazione epistemologica deve procedere, e proprio in conseguenza di questo, affrontare adeguatamente la complessità delle situazioni socioculturali e la varietà dei vissuti esistenziali. In questo contesto sembra, in modo particolare, pertinente il metodo del discernimento.
Il «discernimento» riguarda il compito essenziale di cogliere il senso e il valore di quanto nella società concreta degli uomini si produce, riferendosi al criterio della fede. Quanto nella storia socio-culturale si produce è infatti «originale», nel senso di non poter essere immediatamente ricondotto, né adeguatamente risolto entro il quadro di una dottrina universale più elaborata, della quale i fatti sarebbero semplice realizzazione tautologica. Nella storia si manifesta originariamente un senso, la cui comprensione e accoglienza è condizione essenziale per la stessa «vivacità» del sensus fidei trasmesso dalla tradizione. Nella storia infatti opera lo Spirito di Dio, che è lo stesso Spirito per opera del quale il Figlio fu concepito ed è risuscitato dai morti. Nella storia tuttavia opera insieme la libertà degli uomini, nel bene e nel male. Il discernimento dell'opera dello Spirito è operato dalla coscienza cristiana ed ecclesiale riferendosi, in ultima istanza, come a criterio supremo all'ímmagine dell'unico Signore della storia .
Il discernimento cristiano ha molteplici livelli. Solo una prima e approssimativa distinzione è quella tra discernimento relativo alla vita personale del cristiano singolo (che qui non abbiamo modo di analizzare), discernimento relativo alla missione della Chiesa nel suo complesso e il discernimento relativo ai fatti socioculturali .
Il compito del discernimento sociale s'è fatto urgente e tematico nella consapevolezza recente della Chiesa, a seguito della vicenda del cattolicesimo contemporaneo. Possiamo schematicamente distinguere due aspetti in questa vicenda: il primo è l'aspetto del mutamento civile rapido, in particolare del mutamento allusivamente descritto come «secolarizzazione» e quindi del correlativo rischio che s'approfondisca la distanza tra forme della testimonianza cristiana e forme della coscienza civile; il secondo è l'aspetto della complessità crescente dell'universo civile, e quindi del correlativo rischio di smarrimento della coscienza cristiana di fronte al fenomeno.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la coscienza cristiana è obiettivamente esposta al rischio del «fondamentalismo», l'inclinazione a semplificare la complessità obiettiva dei fenomeni sociali riconducendo all'univocità i singoli (e frammentari) suoi aspetti mediante l'immediato riferimento di essi al testo biblico o, comunque, a qualche aspetto della tradizione cristiana.
La comprensione cristiana della realtà storico-civile o discernimento sociale è condizione previa in ordine al giudizio etico-sociale,
Il giudizio etico quale discernimento sociale si focalizza sulle istituzioni culturali, su quel complesso di modelli di comportamento, di schemi di rapporto sociale, di rappresentazioni collettive, di ideali condivisi, in cui è sempre presente - almeno in forma incoativa - una rappresentazione dell'umano; un'interpretazione magari frammentaria, ambigua, contraddittoria. Proprio in rapporto a tale prefigurazione di senso che, seppure in diversa misura, sempre le istituzioni culturali prospettano, si esige da parte della coscienza cristiana un correlativo impegno interpretativo e critico: un'opera di discernimento sociale.
Il processo del discernimento sociale e prima ancora pastorale si struttura in tre momenti logici strettamente connessi ed intercomunicanti: l’analisi, la valutazione e la progettazione.
La diagnosi oggettiva della situazione storica guida l'indagine teorica alla ricerca delle cause, del significato e delle prospettive che gli eventi portano in sé. Tale lavoro di concettualizzazione si compie alla luce della intelligenza teologica della fede, ed esige come approdo logico il momento progettuale di identificazione delle scelte e del modello di società da costruire . Ed ha la figura del giudizio storico concreto (SRS n.41).
La prospettiva del discernimento sociale, quindi l’analisi, il giudizio e l'azione nella dovuta reciprocità ermeneutica, è teologica se elaborata mediante una metodologia adeguata. L'ormai evidente insufficienza del metodo «vedere-giudicare-agire» ha dimostrato la necessità di elaborare gli assunti della teologia sociale secondo una criteriologia che, salvaguardando il primato della prospettiva di fede, si componga con una propria produttività scientifico-sociale in ogni sua fase. Questo processo dinamico esige uno sguardo di fede che deve mantenere costantemente un rapporto competente tra le sue enunciazioni e l’esperienza sociale delle persone.
I tre momenti o elementi del discernimento (analisi, valutazione, progettazione) sono tutte mediazioni dell’esperienza sociale, che è fondamentale ma sempre mediata. Non c’è contatto vivente con la realtà sperimentata se non mediato.
Nessuno dei tre momenti può essere totalmente isolato, la riflessione teologica non è ristretta ad uno specifico momento. Tutti i momenti sono parte di una definizione espansa di teologia. Tutti sono legati e integrati (OA n.4). “Esiste una circolarità dialettica nella quale i tre momenti si influenzano non in modo unidirezionale e rigido, ma, potremmo dire, a rete” .
Sia l’analisi sociale che la riflessione teologica e il momento progettuale devono poi essere collocati in un’esperienza di celebrazione, animati da un ethos di preghiera, poiché la visione della fede permea tutti i momenti di modo che l’agire sociale nei suoi vari aspetti tecnici ed etici sia “testimonianza a Cristo Salvatore”(CA n.5)..
Il discernimento, in altri termini, non si può produrre correttamente per immediata deduzione dai principi dottrinali astratti, ma esige un confronto tra la concretezza storica e la visione cristiana dell’uomo e della società . Tale confronto non può aver la forma di una semplice comparazione dei fatti sociali, nella loro materialità, con i paradigmi ideali astratti della vita sociale, come la libertà, la giustizia, la solidarietà, e neppure può assumere la forma di compromesso tra il massimalismo dell’ideale e il condizionamento imposto dai fatti storici .
Da una parte il giudizio non procede immediatamente dai principi, pur facendo riferimento necessariamente ad una tradizione ideale, dall’altra non considera i fatti e l’esperienza storico-sociale nella loro materialità, come condizionamento bruto, ma come luogo imprescindibile dell’emergenza dell’ideale, luogo che perciò esige una comprensione valutativa in vista del giudizio sul “bene possibile” quale testimonianza cristiana nella concreta situazione .
Non si può presumere una transizione immediata dalle esigenze morali, formalmente universali, al giudizio operativo concreto. Si corre il rischio di contrapporre alla presente cultura strumentale gli ideali della cultura cattolica, invece di affrontare il problema centrale del rapporto fede e società, chiesa e mondo, coscienza cristiana e civiltà secolare. La soluzione esige di individuare un area di consenso su evidenze etiche emergenti dalla coscienza collettiva (segni dei tempi), evidenze che perciò possono costituire la base di un progetto storico concreto verso il quale far convergere tutte le forze morali della società.
II giudizio di discernimento di tali ragioni di bene e di male, nella ricerca di una strategia del bene possibile, implica il giudizio sulla evidenza empirica: esso non può quindi essere dedotto in una modalità che muova direttamente da un sistema dottrinale di fede ad una conclusione etica dettagliata . Le difficoltà sorgono su come i fatti dell’analisi sono interpretati, l’ ambivalenza dei quali dipende dai criteri di significato che a loro volta dipendono dai giudizi personali di valore. Differenti valutazioni possono essere date dei fatti che sostengono un’interpretazione. Gli “esperti” differiscono nelle loro opinioni. Nello stabilire l’evidenza empirica il rischio dell’errore è inevitabile. Per questo il giudizio pratico è soggetto al cambiamento. Il riconoscimento delle evidenze etiche può solo essere provvisorio poiché il contesto particolare in cui possono essere scoperte è mai completamente conosciuto . Così compreso, il giudizio pratico riflette l’impegno ad acquisire la direzione in cui la fede cristiana può essere espressa in un modo che prenda in conto i limiti delle possibilità umane e morali. Ciò suppone una precisa conoscenza dei determinismi attraverso i quali l'agire individuale ed ecclesiale concorre al mutamento o alla conservazione della struttura sociale, l'individuazione dei mutamenti concretamente possibili e la valutazione morale delle diverse possibilità di mutazione, alla luce del quadro di valori offerti dalla tradizione cristiana. A tale giudizio si perviene attraverso un itinerario che conosce i diversi momenti: «I compiti di responsabilità nelle istituzioni sociali e politiche esigono un impegno severo e articolato, che sappia evidenziare, con i contributi di riflessione al dibattito politico, con la progettazione e con le scelte operative, l’assoluta necessità di una qualificazione morale della vita sociale e politica”(CDSC n.566).
Si tratta di un esercizio dell’intelligenza della fede che non si limita alla pura proclamazione della differenza radicale tra le forme sociali e la speranza cristiana, ma si colloca all’interno delle forme della convivenza umana, cogliendo il rapporto intrinseco tra il processo storico e il mistero cristiano, attraverso i “segni dei tempi” (PT nn.20-21,32, 45,52 ; GS n.4).
I «segni» di cui si parla infatti sono quelle espressioni della civiltà contemporanea che si raccomandano all'attenzione e all'apprezzamento del credente, che possono e debbono dunque motivare il suo impegno storico-civile .
Nell'operare il discernimento storico-pratico dei segni dei tempi si dovrà sempre tenere presenti i principi generali della propria visione della storia universale: l’identificazione della situazione di peccato dell'umanità, il riconoscimento dell'insuperabile distinzione tra Chiesa e società, tra giustizia della fede e giustizia civile, tra autorità del Vangelo e autorità della legge .
La teologia sociale non si ferma all’analisi dei problemi sociali e alla loro valutazione, ma porta a sviluppare soluzioni per la pratica (azioni e non solo valori, atteggiamenti, motivazioni), perchè la verifica per la teologia sociale sono le decisioni e le azioni nella vita civile. Si tratta di combinare insieme il rilievo pratico e la serietà teoretica .
Sebbene il fondamento della missione sociale della chiesa sia teologico, esso non è semplicemente da esibire ma comprende il riferimento intrinseco all’azione storica e culturale oggetto dell’analisi sociale, politica, economica e legale. Si tratta non di semplice opera di cultura che anche nella Chiesa potrebbe essere coltivata, ma della condizione imprescindibile perché la prassi della Chiesa non pecchi di formalismo, e quindi di moralismo. Se i contributi delle scienze sociali non sono riconosciuti il rilievo della visione cristiana nella vita pubblica rimane oscurato.
“Considerare attentamente il corso degli avvenimenti per discernere le nuove esigenze dell’evangelizzazione”(CA n.3) è un atto di discernimento sociale che comprende in sé tutte le forme di conoscenza integrate nella riflessione teologica.
Ciò significa che le strutture istituzionali e gli attori sociali ivi implicati necessitano di seria analisi dal punto di vista delle differenti discipline e dell’esperienza pratica. Per questo la teologia sociale come discorso che pretende di essere rilevante per la società si confronta con le scienze sociali .
La stessa riflessione teologica si dà sempre in un contesto culturale. In primo luogo, la fede è mediata dal contesto che essa interpreta nella sua verità profonda: la stessa fede non può dirsi senza il rapporto con esso. Si tratta, in altri termini, dell’esigenza del principio dell’incarnazione. “Se Dio si è fatto uomo occorre cercare nell’uomo il volto di Dio” .
In secondo luogo la teologia stessa, consciamente o no, si avvale di strumenti linguistici e concettuali riferibili, nella loro formulazione e comprensione, ad un'epoca e ad una cultura. Poiché gli individui esistono sempre come membri di una situazione storica determinata e comunitaria, la relazione a Dio è codificata in determinate forme culturali al fine di essere comprensibile e di invitare ad una risposta. Essa è incarnata in un mondo sociale determinato.
Riconoscere la contestualizzazione della riflessione teologica, non è sinonimo di riduzione o squalifica, piuttosto esprime l'ineludibile necessità della sua comunicazione e potenzialità culturale, quindi la sua stessa pertinenza e ragion d'essere. «Il lavoro teologico è sempre, costitutivamente, interdisciplinare: variano, a seconda dei grandi campi disciplinari (storico, sistematico, pratico) le scienze che concorrono alla costruzione del discorso teologico. Dire "costitutivamente" interdisciplinare, parlare di scienze che "concorrono" significa superare il modello di collaborazione in cui la teologia dialoga e si confronta con le altre scienze, come se essa fosse già previamente costituita. Al contrario, essa si elabora secondo una metodologia propria (legata essenzialmente alle fonti, ai luoghi teologici, alla dimensione ecclesiale, alla prospettiva di fede), che tuttavia non si costruisce, né potrebbe, su direttrici parallele alle altre discipline (teoria - da respingere - del "raddoppio"), ma ne percorre in modo originale e specifica (fides) gli stessi sentieri investigativi (quaerens), al fine di cogliere l'intelligenza del proprio essere ed agire (intellectum)» . Si tratta della «necessità» del costituirsi, da parte del sapere teologico, strutturalmente insieme alle scienze umane. Pertanto la teologia sociale non dovrà cercare punti in comune, ma ragioni fondative. Il fatto che le scienze sociali siano costitutive della riflessione teologica non le pone sullo stesso piano della fede e la loro posizione subordinata rispetto alla fede non le rende accessorie o aggiunte . Esse sono a vario titolo costitutive, ma non fondative della riflessione teologica (VS n.111). Non si tratta di un mero utilizzo da parte della teologia sociale, ma di un’elaborazione del loro contenuto in un contesto più ampio e fondativo.
Il fondamento e il centro della teologia come sapere critico della fede è la Rivelazione di Dio in Cristo. “Dio si rivela in fatti e parole storiche [...]. I fatti della Rivelazione si illuminano e precisano nel loro significato salvifico con l'aiuto dell'antropologia, economia e sociologia che ci danno una comprensione maggiore della struttura sociale dei popoli nei quali Dio agisce secondo la Scrittura» . Il comunicarsi di Dio, rivelatosi uno e trino, avviene “in parole e opere", ossia attraverso la struttura costante dell'Incarnazione, dove la Parola di Dio esiste in quella dell'uomo e l'agire di Dio s'intreccia con la storia dell'uomo. In questo senso il discorso su Dio implica e comprende la realtà dell'uomo. Così il principio di Incarnazione non solo legittima, ma esige il riferimento alle scienze umane.
Il ricorso alle scienze umane non va chiaramente interpretato come un cedimento e una corruzione della solidità scientifica della teologia: al contrario, proprio per garantire alla stessa teologia una adeguata capacità scientifica e, nello stesso tempo, una necessaria autenticità rispetto alla fede, le scienze umane diventano indispensabili.
Questa impresa teorica non è certamente senza rischi, in quanto la metodologia utilizzata dagli autori per comprendere i problemi sociali dipende sia dal loro orientamento teorico che dall'oggetto preciso che intendono spiegare. La possibilità della teologia sociale di avvantaggiarsi degli apporti analitici delle scienze umane suppone preliminarmente una critica epistemologica di quelle scienze; e suppone più radicalmente una riflessione teorica sugli aspetti e i concetti fondamentali del fenomeno sociale (cultura, storia, potere, diritto, ecc.),
4. Il riferimento dinamico dell’antropologia nel dialogo con le scienze sociali
La teologia sociale rivendica un proprio ambito oggettivo che la distingue dalle scienze sociali come la sociologia, la scienza politica, le scienze economiche e le scienze giuridiche . È da notare poi che ogni singola scienza sociale è divisa in molti diversi campi specializzati, ognuno dei quali esige speciali metodologie e si relaziona alla teologia in modi diversi. Inoltre ogni singola scienza sociale include molti approcci teorici diversi e in contraddizione tra loro. Per questa sua natura frammentata e conflittuale, fa notare G. Baum, è impossibile trovare una singola formulazione teorica della relazione tra scienzesociali e teologia . Il compito della teologia sociale diviene l’elaborazione di una strumentazione teorica che costituisca la mediazione concettuale del discorso sulla società in rapporto a concezioni culturali diverse senza snaturare o dissolvere il significato della tradizione cristiana.
Tutte le scienze sociali, anche se scaturiscono dal desiderio di costruire una buona società, considerano la società sotto un aspetto limitato .
La teologia sociale colloca il singolo fenomeno in un contesto più ampio. Essa ricerca fino a qual punto le istituzioni corrispondano all’uomo nella sua globalità, mentre le singole scienze studiano i fenomeni umani selezionando un campo legittimo ma ristretto di analisi. «La DSC ha un'importante dimensione interdisciplinare. Per incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici diversi e continuamente cangianti l'unica verità sull'uomo, tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si occupano dell'uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della singola persona, conosciuta ed amata nella pienezza della sua vocazione»(CA n.59).
Già Paolo VI sottolineava che “ogni disciplina scientifica non potrà afferrare, nella sua specificità, che un aspetto parziale ma vero dell’uomo”; sottolinea tuttavia anche che, all’interno di questi limiti, “le scienze dell’uomo assicurano una funzione positiva che la chiesa volentieri riconosce”(OA n.10). Il punto centrale del dialogo, quello che può allontanare il pericolo di cadere nell’eccesso di empirismo o in quello di ideologizzazione, è per le scienze sociali, come per tutte le scienze umane, un a priori che la OA bene individuava: ”Se tutti sono d’accordo nella costruzione di una nuova società posta al servizio degli uomini, ancora bisogna sapere di quale uomo si tratta” (OA n.39).
Focalizzando la nostra attenzione sulla sociologia, possiamo concordare sul fatto che, abbandonando ogni pretesa esplicativa totalizzante, la sociologia diventa una scienza conoscitiva e interpretativa della realtà sociale, scienza che si caratterizza per la sua natura empirico-analitica e per l'adozione del metodo ipotetico-deduttivo. In questa sua specifica connotazione la sociologia offre quindi un indubbio contributo di conoscenza alla Chiesa per la elaborazione del suo insegnamento sociale, e alla teologia quale intelligenza critica della società: esse non possono non tener conto anche della concreta situazione di determinati momenti storici .
A sua volta, però, la sociologia può trarre utili suggestioni e indicazioni dallo stesso insegnamento sociale della Chiesa e dalla teologia non solo per individuare i temi da analizzare, ma anche per cogliere in esse una sorta di coscienza critica di cui il ricercatore ha indubbiamente bisogno. Sotto quest’ultimo profilo, i riferimenti possono essere molteplici: soffermiamoci pertanto solo su due particolarmente emblematici.
In primo luogo, l'essenzialità di una visione antropologica cristiana che ponga al centro dell'attenzione sempre Ia persona umana. Occorre infatti riconoscere che la letteratura-sociologica spesso rischia di concepire riduzionisticamente la persona nei termini di un fascio di ruoli, oppure come un essere del tutto eterodiretto e ultrasocializzato. « La necessità metodologica e l' a priori ideologico conducono le "scienze sull'uomo" troppo spesso a isolare, nella moltitudine delle situazioni, qualche comportamento umano per darne una spiegazione che pretende di essere globale, o almeno un'interpretazione che si vorrebbe totalizzante a -partire da un punto di vista quantitativo- o fenomenologico. Questa riduzione "scientifica" tradisce una pericolosa pretesa. Privilegiare così tale aspetto dell'analisi significa mutilare l'uomo e, sotto le apparenze di un processo scientifico, rendersi incapaci di comprenderlo nella sua totalità » (OA n. 38).
Ma la consapevole delineazione della parzialità dell'approccio esige il riferimento a una concezione più comprensiva dei fatti sociali, che nessuna « verifica » empirica consente di fondare.
La riflessione critica - in concreto la riflessione volta a elaborare un'antropologia filosofica e teologica - deve rendere evidente il carattere parziale e congetturale dei modelli antropologici che le scienze sociali a volte pretendono derivati dalla rilevazione empirica.
Alla totalizzazione teorica indebitamente pretesa dalle scienze umane consegue la totalizzazione pratica: « Non bisogna essere meno attenti all'azione che le scienze sull'uomo possono provocare dando origine alla elaborazione di modelli sociali da imporre poi come tipi di condotta scientificamente provati » (OA n. 39).
L'Octogesima adveniens riconosce al nuovo campo della ricerca empirica sull'umano soprattutto un compito critico-negativo, e in tal senso liberante: « Esse (scienze sull'uomo) possono dilatare le prospettive della libertà umana offrendo un campo più largo di quello che i condizionamenti già calcolati lasciavano prevedere » (n. 40); e cioè, esse ci possono informare su contingenti condizionamenti che una volta non apparivano come tali alla consapevolezza umana, ma piuttosto apparivano condizioni « naturali » e dunque sfuggivano anche alla possibilità pratica di correzione. Ma per realizzare la possibilità pratica così dischiusa occorre aggiungere, alla denuncia del «condizionamento», l'anticipazione della figura più piena e integra dell'umano, quale solo una considerazione morale e non « scientifico-empirica» può proporre: « Potranno anche aiutare la morale sociale cristiana - dice Paolo VI delle scienze umane - che vedrà restringersi certamente il suo campo allorché si tratta di proporre certi modelli sociali », nel senso che alla proposta di tali modelli essa non potrà pervenire immediatamente procedendo da affermazioni ideali di valore universale, ma dovrà verificare storicamente la praticabilità e il modo di operare di quei modelli quando essi vengano iscritti nella complessa rete di condizionamenti obiettivi, operanti a livello di società effettiva; « mentre la sua funzione di critica e di superamento diventerà più forte mostrando il carattere relativo dei comportamenti e dei valori che tale società presentava come definitivi e inerenti alla natura stessa dell'uomo » (OA n.40); e cioè, gli aspetti della vita sociale che la ricerca empirica manifesta come contingenti e legati a una situazione storica determinata propongono alla teologia pratica il compito di ridefinire quelle « profondità dell'essere umano » - cui si allude subito dopo nel testo della lettera - che mai possono essere dette nella forma del puro concetto, ma sempre comportano di necessità il riferimento alle rappresentazioni offerte dall'esperienza sociale e il loro continuo superamento.
L’antropologia cristiana va quindi intesa come un riferimento dinamico, che, assumendo la storicità propria della riflessione teologica, implichi una riformulazione adeguata di se stessa, aperta agli elementi validi che le scienze sociali vanno apportando al processo . Pretendere di porre in un semplice confronto antropologia e scienze umane, implicitamente e riduttivamente presuppone un'idea di antropologia configurata come somma di principi astratti o fondamentalisticamente dedotta dalla Sacra Scrittura . Come abbiamo visto, il giudizio teologico pratico sui fatti sociali non può essere configurato quale confronto dell’effettivo, rappresentato in termini positivistici quale risultato delle scienze umane, con ideali definiti a prescindere da esso. Proprio perché la teologia sociale è consapevole che l’esperienza sociale e le istituzioni civili non sono pura matter of fact, ma portano inscritti in sé significati, che soltanto per riferimento ad un’antropologia possono essere intesi e valutati. E, d’altra parte, le evidenze etiche non si danno in modo “razionale”, ma in forma storica attraverso la mediazione dei rapporti socio-culturali .
La centralità dell'uomo, così intensamente difesa e rivendicata da tutta la DSC, viene offerta agli scienziati sociali come luogo concettuale di convergenza, di collaborazione e prima ancora di confronto. «Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per comprendere la centralità dell'uomo nella società» (CA n.54). La teologia sociale ha il compito di definire il criterio o elaborare compiutamente la proposta antropologica per articolare adeguatamente il rapporto con le scienze umane, più che limitarsi ad offrire una prospettiva di dialogo culturale.
La riflessione della teologia sociale, nella sua specificità teologica, non integra solo contenuti statistici ma riflette ed elabora con un metodo proprio (teologico) riflettendo sulle idee, metodi e teorie delle diverse discipline.
Ecco dunque la necessità di mettere a punto un'adeguata criteriologia in modo che il metodo, per essere autenticamente teologico, possa svolgersi lungo l'intero suo percorso sotto il segno esplicito della riflessione di fede insieme agli apporti delle scienze. “Il criterio ultimo e decisivo di verità non può essere, in ultima analisi, che un criterio esso stesso teologico. È alla luce della fede, e di ciò che essa ci insegna sulla verità dell’uomo e sul significato ultimo del suo destino, che si deve giudicare della validità o del grado di validità di ciò che le altre discipline propongono”(Libertatis nuntius n.10).
Ciò che è indispensabile riguardo a queste scienze, è la comprensione del loro linguaggio e dei loro procedimenti scientifici.
E' necessario cioè che il teologo, elaborando una teologia sociale, sia in possesso di quella strumentazione concettuale e contenutistica in modo da rendere la sua analisi pienamente teologica e veramente competente. E accolga così una scommessa, o addirittura una sfida interessante, ovvero la interdisciplinarità come tecnica metodologica per comprendere la complessità della società, delle organizzazioni, degli individui.
Così la teologia sociale svolge opera di mediazione reciproca di significato tra diversi modi di comprensione.
In questa ottica è necessario approfondire ulteriormente l’apporto antropologico della teologia sociale.
5. Le buone ragioni dell’attore sociale
Sono intuibili nell’Octogesima Adveniens e nell’ultimo passo citato della CA alcune motivate preoccupazioni e altrettanti richiami: il rischio, da parte delle varie discipline che studiano la realtà sociale, di cedere allo scientismo, vale a dire il ritenere vero solo ciò che è empiricamente dimostrabile, chiudendosi così ad ogni rilievo etico e trascendente. E' in tal modo denunciata la pretesa veritativa di quegli asserti scientifici, che riducendo la persona umana a semplice oggetto, non ammettono altre prospettive - quindi altre «verità» - che la propria (psicologismo, sociologismo, economicismo, ecc.). Tale pretesa scientista emerge in due forme apparentemente opposte.
La prima si può cogliere nel fatto che sociologia, psicologia e antropologia culturale operano nel senso di imporre alla consapevolezza pubblica l'essenziale mediazione culturale della coscienza . La cultura non è pensata da tanti analisti sociali come un’istanza che si mette dì mezzo tra coscienza e verità: la cultura semplicemente sostituisce la verità, e da sé sola determina la forma che assumerà la coscienza.
La coscienza dell'uomo deriverebbe la sua forma unicamente dalla cultura. Le conseguenze di questo modo di pensare si possono facilmente intuire: non ci sarebbe alcun cielo fisso di verità, che offra un termine di paragone per confrontare e apprezzare le diverse culture.
Dall’altra parte, l'índividualismo metodologico insorge a ragione contro il determinismo sociologico che presuppone la spiegazione dei fatti sociali in base alle tradizioni, alle mentalità, alle cause. Esso afferma la libertà dell'individuo . Ma questo attore dell'individualismo metodologico è un attore razionale nel senso di calcolatore: cerca di massimizzare il suo potere, i suoi interessi. La sua decisione è razionale nel senso del calcolo dei vantaggi e degli inconvenienti; calcolo molto limitato, beninteso, ma calcolo comunque . Tutto quel che non rientrerebbe in questo modello di comportamento sarebbe irrazionale, e non libero . Questo approccio rinvia dunque continuamente tutto l'universo dei fini, degli obiettivi, dei valori nella sfera dell'irrazionalità, ed innalza allo statuto di sola decísione libera la decisione sui mezzi.
Le due forme diverse di scientismo rendono impossibile qualunque rapporto interdisciplinare tra scienze sociali e teologia sociale. La scienza viene considerata come momento tecnico avalutativamente asettico e la riflessione teologica può fornire tutt’al più delle linee guida su come utilizzare i risultati delle scienze in un rapporto che rimane extradisciplinare, in quanto interviene alla fine a modo di giustapposizione senza entrare nel percorso della ricerca scientifica.
La teologia sociale prende sul serio, in primo luogo, il discorso degli attori sociali e fornisce al sociologo «una gamma di tipi di razionalità»: oltre alla razionalità utilitaria, la razionalità teleologica, assiologica, tradizionale, cognitiva . All’opposto delle spiegazioni sociologiche che fanno appello a forze oscure che superano il soggetto, siano esse l'inconscio individuale, l'alienazione o una struttura sociale elementare inconscia ( Lévi-Strauss) presuppongono troppo facilmente degli attori irrazionali, o incomprensibili all'osservatore .
La teologia sociale invita, in secondo luogo, a identificare le «buone ragioni» che permettono di comprendere il comportamento di un attore e la logica della sua azione. Si tratta di una razionalità molto più ampia della razionalità strumentale. Essa include in realtà tutte le «buone ragioni » (che possono essere anche morali, religiose ecc.) che fanno sì che un attore abbia agito in un certo modo. L’attore individuale o collettivo, certamente strategico, ma anche dotato di una storia e di un'identità, con progetti professionali ed extraprofessionali, con le sue pulsioni, viene colto partendo dall'osservazione di istituzioni multiple. Ugualmente, la situazione d'azione, in quanto momento storico, ma anche mitico e simbolico, spazio circostanziato e singolarmente complesso di oggetti e soggetti più o meno finalizzati, ricopre un ruolo composito.
In relazione ai diversi approcci sociologici la teologia sociale può e deve avvalersi di una metodologia fenomenologica, intesa a evidenziare non solo le caratteristiche salienti della vita sociale contemporanea, ma ad elaborarne il contenuto che viene offerto alla consapevolezza per far emergere la multidimensionalità dell’azione del soggetto umano, che si dispiega nell’esperienza sociale. Si tratta di scoprire il senso dei diversi aspetti della vita sociale, ivi compresi comportamenti tipici dei gruppi, pregiudizi della tradizione e del costume, dischiudendoli come grammatica di un progetto pratico, capace di configurare regole e istituzioni per l'agire associato: si evita di emarginare il problema morale come se esso e la libertà apparissero solo alla fine, quando la vita sociale è già istituita, dalla cui istituzione nelle concrete vicende storiche sarebbe invece assente; si evita cioè l'esteriorità tra sapere sulla società e appello alla libertà/giustizia, e in radice alla fede .
La teologia sociale fa apparire così la necessità di superare una concezione materialistica della vita civile e della vicenda storica, bloccate su un complesso di dati e di regole funzionali o ideali, senza che sia possibile in esse e attraverso i simboli da esse istituiti rimandare alla consapevolezza di sé della persona umana. Tale consapevolezza è insieme apertura incondizionata e posizione di sé e della propria libertà, è disponibilità (fede) e opera storica. Questa dinamica dell'agire sociale va rilevata se non si vuole smarrire la soggettività, parlando di società e della sua configurazione libera e giusta. Anche in essa l'uomo è riportato a sé, ma per scoprire l'appello a fidarsi dell'altro e degli altri e a compiere individualmente e collettivamente quelle opere che esprimono il fidarsi reciproco (anche nella forma della garanzia e della difesa). Non si tratta di contemplare/attuare un modello di società riflesso da una coscienza astratta, ma di alimentare la vita civile ad una coscienza originariamente aperta al bene e in definitiva alla fede nell’Evangelo.
In tal modo la teologia stimola le scienze sociali a diventare scienze dell’azione sociale, comprensione dei significati dell’azione sociale. Questi significati sono prima di tutto, afferma A.Schulz, quelli che gli attori sociali attribuiscono alle loro azioni: i fenomeni della vita soggettiva entrano così nel campo della sociologia. La struttura di significato del mondo sociale è multiforme e le molte sfere di significato si intrecciano e determinano le modalità specifiche di stabilimento del significato stesso .
6. Il problema del senso
Oltre l’apporto antropologico, la teologia sociale può contribuire ad approfondire- anche sotto il profilo sociologico - una questione che sta diventando sempre più cruciale nel mondo d'oggi: il problema del senso che, a sua volta, si declina in termini di « perdita di senso », di « crisi di senso» e di « non senso », con tutte le conseguenze individuali e collettive alienanti e patologiche.
Alcuni interrogativi aiutano a chiarificare il dibattito: nella sociologia quali fenomeni sono importanti al fine di una conoscenza scientifica? Che cosa vale la pena di indagare? Il ricercatore può mostrarsi disponibile verso qualsiasi interesse conoscitivo? La delimitazione proposta da M.Weber di un’analisi puramente scientifica è sufficiente a dimostrare che non esiste alcuna possibilità di fondare i giudizi di valore?
Negli ultimi decenni si è affermata nelle scienze sociali la egemonia di paradigmi scientisti - dallo struttural-funzíonalísmo alla teoria dei sistemi e alla teoria della scelta razionale – che hanno profondamente spostato l'asse delle discipline socíologíche e politologiche in senso antifilosofico, nonostante le lodevoli eccezioni.
La teoria tende a diventare, in questo quadro, un mero supporto alla generalizzazione empirica .
All’origine di questa tendenza possiamo porre la famosa controversia, importante per la teologia sociale, tra una sociologia neutra e oggettiva, libera dai valori, e una sociologia ermeneutica che vede se stessa come dipendente dal punto di vista e dagli ideali sociali del ricercatore. La sociologia oggettiva richiede al ricercatore di essere distaccato dalle sue convinzioni personali e cerca delle conclusioni accettabili universalmente, con metodi di ricerca assimilabili a quelli delle scienze naturali .
Secondo l’approccio ermeneutico la sociologia neutrale circa i valori è un’illusione. Vedere, leggere e sistemare i dati dipende da una serie di presupposti che devono essere esaminati e per cui i ricercatori devono assumere responsabilità. In molti casi coloro che sinceramente pretendono la neutralità si identificano con i valori dominanti della loro società .
Questo è ancora più vero nell’attuale contesto di «prívatizzazíone della scienza»: imperativi strategici di agenzie di stato, o esigenze commerciali d'impresa, colpiscono direttamente (ritiro dei papers, divieto d'accesso a stranieri) o corrodono dall'interno (appropriabilità di un risultato teorico) un principio basilare, apparentemente indiscusso, della comunicazione scientifica (pubblicità, libertà, non negoziabilítà etc. della circolazione di conoscenze) .
Di qui l'aggravamento di tensioni circa valori, identità e perdita di autonomia che la recente sociologia delle comunità scientífíche rileva. La relazione tra scienza e valori privatistici veicolati dai modellí organizzativi richiede, in ogni caso, una considerazione specifica. Qui, riportando il discorso al livello «interno» dell'evoluzione delle discipline, va sottolineato un aspetto particolarmente delicato della relazione inedita - che si va delineando - tra le dimensioni epistemologica, etica e sociologica.
La partecipazione del discorso sociologico a quell'autocomprensione scientista della modernità occidentale, che espelle la razionalità rispetto ai valori e alle considerazioni di carattere normativo dalla logica della riflessione scientifica, ha promosso, come regola vincolante del proprio discorso, l'inaccettabilità della problematica morale in tutte le forme diverse da quelle di un'ideologia socialmente condivisa, e perciò eterogenee rispetto al discorso sociologico .
C’è il pericolo che un sapere di questo tipo consolidi ulteriormente la posizione di potere delle classi dominanti in seno ad una società. Nelle concezioni sociologiche l’analisi puramente descrittiva può esercitare un influsso conservativo e quindi ideologico .
In conclusione le scienze sociali avalutative presentano una decisione presa già in partenza a favore di una razionalità puramente tecnica. Il prezzo che esse debbono pagare per protestare la loro `laicità' è la distanza pregiudiziale da quegli interrogativi che sono invece inevitabili per la coscienza. E dunque la distanza anche dal punto di vista più proprio della persona vivente.
Dietro a tutto questo c’è un problema radicale: esistono al di là dei mutamenti sociali, valori riguardo ai quali si possono fare delle affermazioni universalmente valide e veritiere? Esistono riguardo alla determinazione di ciò che è buono per l’uomo soltanto opinioni soggettive o anche delle possibilità di intesa?
Nel processo di soggettivizzazione della ragione , iniziato nell'età moderna la nozione ontologica di verità e giustizia viene sostituita con una concezione più debole per cui verità e giustizia sono «costruzioni umane», ma al tempo stesso rimangono «oggettive» in quanto «imparziali», ossia non legate alle preferenze di un particolare soggetto .
La difficoltà di formulare giudizi di valore nella teoria sociale sta nella problematicità di pervenire a conoscenze universalmente valide e tuttavia non scontate dell’essenza dell’uomo in quanto tale . Certi filoni della sociologia sono aperti ad un progetto di un'etica universalistica che non richieda il sacrificio dell'índividualità a una normatività sovraindividuale, che riconosca e accetti l'esistenza di una pluralità di visioni del bene e che mantenga tuttavia la possibilità di criticare l'esistente in nome delle sue stesse potenzialità irrealizzate . Ciò non significa un indifferentismo sui valori, ma che tutti sono chiamati al dialogo sociale sui valori.
Il difetto di interesse per la verità da parte della cultura-ambiente sembra assegnare alla teologia sociale il compito di raccogliere la buona eredità dell’Illuminismo: emancipare l’uomo dalla dipendenza secolare e minorile nei confronti di pregiudizi dell’epoca. Il credente ha bisogno di essere “critico”, il ministero ecclesiastico deve aiutarlo in questo compito: la teologia ha quindi un servizio urgente da rendere alla buona qualità del ministero ecclesiastico.
L’inserzione del teologo nel campo delle scienze sociali offre da questo punto di vista un terreno di sperimentazione particolarmente stimolante. In un dialogo costante con le altre razionalità, può contribuire in maniera critica e costruttiva alla riflessione sulla società. Può partecipare ad una riflessività in atto aperta alla creatività, riferendo se stesso non ad una ideologia astratta, ma ad una comunità di interpretazioni e a delle tradizioni viventi incarnate nelle pratiche concrete. Egli rende un servizio salutare alla scienza in generale, aprendo la riflessione su un mondo di significati che superano le interpretazioni immanenti delle razionalità moderne.
Nello stesso tempo la riflessione teologica può guadagnare in qualità e rigore nel campo sociale. Volgendosi verso i luoghi dove si esercita la responsabilità umana, verifica la teologicità della sua riflessione ed è chiamata ad una nuova creatività sul piano più fondamentale. Se la teologia può portare un contributo salutare alle scienze sociali, essa è anche interrogata nella sua capacità di raggiungere l’uomo concreto che cerca di agire con responsabilità al cuore delle realtà di questo mondo . Il confronto con le situazioni concrete stimola anche il teologo a lasciarsi interpellare dal mondo vissuto tanto dai credenti che dai non credenti, nella fedeltà alla propria posizione di soggetto ecclesiale.
Passando attraverso le scienze umane la teologia sociale può pensare criticamente la verità, che è annunciata nella rivelazione cristiana anche sotto il profilo della vita collettiva degli uomini . Questo compito deve essere svolto come esigenza riflessiva della verità creduta e vissuta.
7. Lo statuto pubblico della teologia sociale
Nel contesto culturale pluralista e laico, la via sembra stretta tra una prospettiva che si adegua al linguaggio secolare e una prospettiva che vuole ricristianizzare un mondo che ha perduto il suo centro. Nel primo caso il compito teologico si confonde con l’eticista, nell’altro la teologia non avrebbe più nulla da dire al mondo. La teologia sociale deve intraprendere i cammini di una riteologizzazione ma in modo pudico e radicale , senza rinunciare alla pretesa di parlare a tutti e accettando le esigenze del discorso argomentativo . È la condizione per restare fedele al suo progetto costitutivo: teoria critica della nuova comprensione, istituita dalla fede nell’Evangelo, dell’esperienza sociale a tutti nota e in cui sono in gioco i rapporti di prossimità .
Questioni di metodo si pongono quando la teologia sociale si propone di passare dai documenti sociali della Chiesa come punto di riferimento normativo a una teoria sociale che sia all'altezza delle esigenze del discorso scientifico e filosofico attuale . E’ un compito trascurato, anche perché fino a ieri le scienze sociali e la filosofia si ritenevano scientifici in quanto neutrali rispetto ai valori. Oggi una consapevolezza maggiore dell'impossibilità di prescindere da ogni presupposto esige che si dichiarino i propri punti di vista, e che si mostri come essi fungano solo da precomprensioni o comprensioni provvisorie, che si lasciano contestare da altre interpretazioni, a confronto con la realtà interpretata. L'esplicitazione analitica e la costruzione teorica di modelli interpretativi dovrà essere illuminante e mostrarsi poi feconda alla prova di un'esperienza più ampia. Solo questo laborioso percorso consente di riconoscere i propri limiti e di sfuggire dal pericolo di creare un circolo vizioso tra precomprensione e comprensione.
Assumere una precomprensione della società ispirata al cristianesimo ed espressa nella Dottrina Sociale della Chiesa consente alla teologia sociale una critica alla stessa precomprensione nei suoi elementi storici-culturali. L'autorevolezza di questa dottrina non è data dall’appello alla fede e neppure dalla sua importanza come espressione di atteggiamenti e orientamenti sociali e politici di una parte importante della popolazione, o di istituzioni meritevoli di considerazione. Viceversa sarebbe troppo poco considerare la teologia sociale come una delle tante ipotesi interpretative della realtà sociale. Ispirarsi alla Dottrina sociale della Chiesa significa avere una fiducia prescientifica nella sua validità e verità, fiducia che spinge ad una sua articolazione e argomentazione rigorosa, e che esige e consente anche di controllare in che misura la teoria (teologia sociale) sia fedele al vissuto.
In sede di ricerca però la fede può fornire delle intuizioni o degli orientamenti di comprensione e interpretazione che ispirano fiducia, ma che devono sfociare nella formulazione esplicita dei problemi e delle ipotesi interpretative, e possono poi servire da istanze critiche rispetto alla riuscita della teoria. La fede così è presente non solo nel dato ma anche come fonte di ispirazione e validità. Ciò sembra avvenire in modo simile anche in altre tradizioni di pensiero, alle quali la scienza e soprattutto la filosofia attingono e alle quali si ispirano.
In quest'ottica la fonte tradizionale e la persuasione di fede, sottostante alla riflessione della teologia sociale, esigono che i concetti siano formulati con precisione e le ragioni giustificative devono poter pretendere comprensibilità e validità universale - e tanto varrà l’ipotesi o teoria della teologia sociale quanto sarà cognitivamente appropriata e feconda. In questa prospettiva ha un senso parlare di teoria sociale cristiana. E’ chiaro che concettualmente e argomentativamente essa deve avere il grado di rigore proprio di ogni vera riflessione scientifica, ma essa conserva l'impronta della sua ispirazione teologica, così che resta sensato parlare di teoria sociale cristiana. La teologia diventa scienza sociale nell’indagare la domanda di senso e il fenomeno religioso in quanto questi sono fenomeni fondamentali che appartengono all’esperienza sociale e umana. A questo proposito la teologia sociale si fa intelligenza critica della fede –che le permette ad es.di diagnosticare forme degenerate del rapporto religione società, in cui la religione è una disposizione soltanto interiore e la società riguarda comportamenti soltanto esteriori e senza alcun riferimento alla disposizione religiosa – da una parte appropriandosi delle conoscenze generali della sociologia e dall’altra nel contatto con la tradizione cristiana in quanto tematizza l’ambivalenza delle istituzioni sociali.
Una ricerca sulla società guidata da interessi teologici e sociologici fornisce al progresso conoscitivo delle scienze umane proprio quel contributo al quale il teologo apporta la sua inconfondibile competenza .
Ma talora in sede di teoria sociale è ancora contestata radicalmente la possibilità di una traduzione discorsiva e argomentativa di valori religiosi. Habermas la ritiene sostanzialmente impossibile. Più recentemente ha ammesso apertamente un potenziale di razionalità insito anche nelle tradizioni religiose, ma non riconosce per ora al discorso religioso se non un valore retorico .
Ammettiamo che sia possibile una pluralità di forme di ragionevolezza e di umanità sia religiose che non religiose, considerandole in un ambito di discorso rispettoso delle alterità . Il criterio da proporre per il rispetto dell'alterità è il seguente: qualora l'interprete o il teorico non condivida il punto di vista religioso (o non religioso), il teologo sociale dovrà formulare la sua interpretazione in modo comprensibile e accettabile anche da chi cerca di comprenderla ma senza condividerla. E’ un principio di adeguatezza: «si richiede dagli scienziati sociali una comprensione di quella comprensione di sé e della propria situazione che hanno i loro soggetti». Così che reciprocamente «i soggetti di studio, almeno in linea di principio siano in grado di comprendere i termini scientifici impiegatí nel teorizzare le loro opíníoní». E’ questo il postulato di adeguatezza formulato da Alfred Schultz e ripreso da Marvin Stauch .
Osservazioni conclusive
La teologia sociale deve affrontare il problema sociale di fondo oggi: la separazione fra l’esperienza morale e le istituzioni sociali, la sottrazione della dimensione etico-religiosa dalla sfera pubblica.
Il predominio della razionalità funzionale esclude dalla sfera delle evidenze pubbliche le questioni relative al senso dell'agire sociale. Di qui la riduzione della civiltà al sistema delle norme che regolano il rapporto sociale e la dissoluzione progressiva della cultura a particolarità priva di qualsiasi identità. A ciò si collega l'idea della sufficienza, per la giustificazione del rapporto sociale, del diritto, inteso come norma in nessun modo debitrice nei confronti delle forme concrete dell'esperienza storica di una comunità.
Per istituire il rapporto tra la fede e l’esperienza sociale, l'esigenza fondamentale oggi consiste nel restituire la dimensione di senso della realtà istituzionale, correlando l’Evangelo alle condizioni oggettive dell'esperienza sociale restituite al loro originario significato umano. Senza questa esplicitazione del «senso disponibile», l'annuncio dell’Evangelo alla comunità degli uomini appare indeterminato e generico.
È così inidividuata l’area di sviluppo della teologia sociale che possiamo determinare ulteriormente in queste direzioni. Una prima linea ispiratrice della riflessione teologica dovrà curare la coscienza “simbolica” che coglie la struttura della società degli umani come ultimamente relazionale e il suo rinvio all’intero, mentre la scienze sociali sono per se stesse volte alla determinazione oggettiva: esse valgono solo come una necessaria, ma non definitiva astrazione. Il riferimento al senso più profondo della realtà sociale, senso che ad un tempo la costituisce e la trascende, diverrà allora una regola per dirigere le linee della ricerca sulla società.
Emerge una seconda pista di sviluppo della teologia sociale: essa non può che partire dalla Rivelazione e dunque dovrà essere una teologia strutturata cristocentricamente. In questa prospettiva l’evento cristologico è assunto come il senso fondativo della realtà culturale e determina il fine della società.
Fondare cristologicamente l’esperienza sociale significa mostrare che ciò che è altro o differente (la fede nell’Evangelo del Regno di Dio) è alleato cioè unito (alle culture umane). Tutto l'agire dell'uomo credente in ogni suo aspetto può avvenire così. Tutto deve dire Gesù, ma nella differenza, e in questa c'è il posto e la consistenza dell' esperienza socio-culturale compresa in modo critico. Si tratta di indagare come il rapporto tra giustizia del Regno e giustizia sociale possa essere formulato secondo la logica cristocentrica dell’unità nella differenza.
Infine individuiamo un terzo compito per la teologia sociale. Mentre il referente della giustizia sociale è un sistema civile di rapporti, storico e ambiguo, il referente della giustizia del Regno è in suprema istanza la storia di Gesù Cristo. Tale differenza è contenuta nell’unità. La riformulazione di tale differenza in termini critici e dinamici permette di cogliere l’ oggettivo rilievo dell’agape cristiana nelle relazioni sociali, superando la tendenza della cultura dominante ad emarginarla nella privacy e mostrando come essa sia l'origine della stessa giustizia sociale e il principio di un rinnovamento complessivo delle forme politiche della vita comune.
GIANNI MANZONE
SOMMARIO
L’articolo vuole porre alla luce la permanenza della questione teologica all’interno dell’esperienza sociale quotidiana, considerata nella sua interezza e nelle sue realtà caratterizzanti quali le istituzioni. A questo proposito vengono svolti alcuni punti introduttivi alla teologia sociale che mettono in luce la sua natura teologica e pratica, la dimensione epistemologica e il carattere interdisciplinare e argomentativo.
Richiamandosi all’istanza originaria di una prossimità donata come una promessa, a cui rende testimonianza la cultura universale, la teologia sociale evidenzia una possibile e univoca verità delle forme del rapporto umano raccomandate dalla tradizione culturale. E riferisce la verità incondizionata, a cui rimanda anche l’esperienza sociale, alla peculiare verità della fede.
La qualità pastorale di tutte le discipline teologiche deriva dalla dimensione ecclesiale e dalla dimensione pratica di tutta la teologia (G.COLOMBO, La ragione teologica”in AA.VV. , L’evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988, p.7-20 ).
G.BEDOGNI, La dottrina sociale della chiesa come teologia pratica. Un’indagine epistemologica, Pul, Roma 2000, p.227
Per lo sviluppo del’idea di teologia sociale , Cfr. G.MANZONE, Una comunità di libertà. Introduzione alla teologia sociale, Messaggero, Padova 2008,
G.ANGELINI, “La Dottrina sociale della Chiesa” in AA.VV., La Dottrina sociale della Chiesa, Glossa 1989, p.80ssg.
E.MONTI, “Il Compendio: un nuovo approccio alla dottrina sociale?” in La Scuola Cattolica 133(2005)579-580
Il bene comune oggi, un impegno che viene da lontano, a cura del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, Documento Preparatorio, EDB, Bologna 2007, n.26
La secolarizzazione erode le stesse condizioni civili indispensabili ad articolare la pertinenza del messaggio evangelico e quindi della missione della chiesa: mancano le opportunità civili di riconoscere il senso e il valore dell'uomo nelle quotidiane circostanze della vita. Nasce allora la tentazione non solo di privatizzare l’imperativo etico ma la stessa fede cristiana in proiezioni spiritualistiche , svincolate dall'intrigo inestricabile dei rapporti civili. Ma il credente, e in generale l’uomo, non può uscire dalla civiltà.
Lo studio della situazione è indispensabile per la valutazione e per dare consistenza agli orientamenti che si prendono.
L'universalismo del principio regolativo consente ad una cultura particolare come quella europea di riconoscersi portatrice di un universale concreto: nella specifica determinatezza della sua tradizione è dato di incontrare un momento di universalità perché essa tradizione particolare non è determinata dal riferimento a se stessa ma ad un'alterità assoluta che funge da metro di misura.
In questa prospettiva ogni cultura determinata si carica di un universalismo inteso in senso positivo in quanto concepisce la propria verità non nel riferimento a se stessa, ma a qualcosa che la trascende e che può essere definito solo negativamente come l’Assoluto. La realtà è così concepita nei termini di una dualità fra assolutezza e relatività, dove la differenza che passa fra i due termini e che va mantenuta non significa l'assenza della relazione, ma un ordine che, impedendo a ciò che è immanente di chiudersi in se stesso, consente alla dimensione trascendente di diventare il suo principio regolativo e critico, e di salvarlo dalla barbarie e dalla malinconia (J. TISCHNER, Il pensiero e i valori, Cseo, Bologna 1980, p. 49, «il tempo della malinconia è il tempo di un domani in degradazione», proprio perché privo di «ulteriorità».
F.BOTTURI, “Principi morali e assoluti etici” in AA.VV., Gli assoluti morali nell’epoca del pluralismo, San Paolo, Cinisello B., 2001 p.106ssg.
Il senso e la verità della decisione di fede potranno essere successivamente indagati, mostrati e giustificati di fronte alle obiezioni. In ogni caso non saranno istituiti dalla teoria ma dalla risoluzione pratica che cerca di darsi ragione: operazione non irrilevante perché concorre a costituire la stabilità e la coerenza della scelta di fronte agli ostacoli.
La teologia morale è la teoria sistematica della prassi del singolo credente e non disciplina di carattere pratico-pratica (casistica). E' riflessione pratica non solo per avere come oggetto la prassi, ma per avere coma soggetto il soggetto dell'agire, l'uomo che si rapporta a sé stesso e al proprio agire nella forma immediata della coscienza e che è definito nella sua identità da un'esperienza storico culturale biografica attraverso la quale egli è riferito a ciò che supera la contingenza storica.
La teologia pastorale si colloca tra le discipline analitiche e si definisce come scienza teo logica dell'azione della Chiesa o della prassi in quanto strategia di guida della comunità cristiana. E' l'iniziazione diretta e immediata della prassi ecclesiale con attenzione all’indirizzo collettivo (B.SEVESO,”Sulle strade della vita cristiana. Le prospettive della teologia pastorale”in Teologia 2(2006)285-306).
Pur dovendosi riconoscere come necessaria la distinzione dei diversi livelli del discernimento cristiano - individuale, ecclesiale e sociale, con le diverse articolazioni - occorre insieme riconoscere la loro stretta connessione. Un'immagine storica concreta della Chiesa tutta è sempre implicata - seppure in forma soltanto implicita - nella «discrezione degli Spiriti» relativa alla vita del singolo; e d'altra parte un'immagine almeno implicita delle diverse vocazioni tipiche offerte alla libertà del cristiano singolo è implicata nel discernimento delle strategie pastorali più opportune.
G.CREPALDI-S.FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2006, p.68.
GS introduce una struttura argomentativi tipica: il punto di partenza è costituito dalla descrizione fenomenologica della situazione, cui segue il giudizio prodotto alla luce dei principi cristiani e l’indicazione di obiettivi operativi.
La novità sta nel tipo di lettura fenomenologica, che non si vuole limitare alla descrizione dei fatti, nella loro materialità, ma mira ad interpretarli cogliendovi l’espressione di attese, problemi, desideri diffusamente avvertiti e meritevoli di considerazione. Sono i “segni dei tempi”, fenomeni che caratterizzano un’epoca e rivelano una concezione di esistenza.
Nel giudizio storico-sociale, procedere dal principio generale alla proposta pratica concreta è alquanto imprudente. Il bene possibile - per esempio con riguardo alla «solidarietà» - va individuato attraverso un discernimento pratico, che anzi tutto sappia immaginare il futuro effettivo conseguente a questa o quest'altra scelta, e proprio con riferimento a tale immagine esprima una valutazione. «Immaginare» d'altra parte vuol dire rappresentare quel futuro tenendo conto della complessa situazione storica, della molteplicità dei fattori che concorrono a costituirla, di quelli «materialí» e di quelli ideali. «Immaginare» non è possibile se non nel quadro di un'interpretazione scientifica della realtà sociale, capace di conferire senso ai fatti e concretezza storico-pratica agli ideali. La «solidarietà» in tal caso non apparirà più come appello a una generica disposizione etica della libertà soggettiva, ma come progetto storico-concreto capace di mobilitare la disposizione etica dando ad essa una rappresentazione obiettiva.
Secondo N. KAMERGRAUZIS (The persistence of Christian Realism, Uppsala University 2001 ) tra le generali affermazioni delle richieste etiche del vangelo e le decisioni che si devono prendere nelle concrete situazioni c’è bisogno di ciò che può essere descritto come “assiomi medi”. Essi sono tentativi di definire le direzioni in cui in una particolare situazione della società la fede cristiana deve esprimersi. Sono definizioni provvisorie del tipo di comportamento richiesto dai cristiani in un dato periodo in date circostanze. Un’argomentazione simile si trova anche in R.PRESTON, Confusion in Christian Social Ethics, SCM Press London 1994.
Al di là di quest'originaria connotazione positiva, «segni dei tempi» sono più in generale i criteri per il proprio impegno che il cristiano e la Chiesa tutta debbono cercare nell'attualità storica, rimediando così a quel rischio di «inattualità» che pesa nei fatti e nelle rappresentazioni soggettive sul cattolicesimo moderno. Nella prospettiva della fede quale segno messianico, cfr. C.THEOBALD, “Lire les signes des temps. Dimension sociale et politique de la foi” in Etudes 151 (febrier 2007)197-212.
Sotto tale profilo il progetto politico di una società cristiana sarebbe per se stesso contraddittorio: se progetto politico esso non può essere di una società cristiana; se progetto di una società cristiana esso non può essere politico.
È vero però che l'«invenzione» di un progetto politico, e più in generale di un ideale civile per la società secolare, può e deve essere «ispirato» dalla fede. «Invenzione» non significa qui opera arbitraria della fantasia, ma individuazione di una possibilità buona in qualche modo latente nella situazione storica. Ora tale individuazione esige che la coscienza sappia riferirsi idealmente a un'«utopia» eccedente rispetto alla nuda ricognizione positivistica delle cosiddette leggi della storia (OA n.37).
La DSC per es. indica il bene comune come obiettivo dell’attività economica e politica: i contenuti del bene comune però non sono individuabili a priori, come diretta derivazione della visione cristiana, ma sono postulati dalle situazioni storiche (PT n.20).
Il problema, secondo Verstraeten, non è tanto la dipendenza dalle scienze sociali ma il fatto ch il loro ruolo è minimizzato: c’è una tensione tra l’apprezzamento formale per il loro contributo ad una conoscenza migliore della situazione sociale e la loro sottovalutazione. Si dà più attenzione a criticare il rischio di ideologia nelle scienze sociali che a prendere in conto i risultati della loro ricerca e le loro giustificate critiche. Esse tendono ad essere pensate in un ruolo secondario e ancillare (CA 54-55). La sovrastima della conoscenza teologica, si domanda Verstraeten, porta a dare poco spazio alle scienze sociali nelle recenti encicliche? (J.VERSTRAETEN, “Re-thinking Catholic Social Thought as Tradition”in AA.VV., Catholic social Thought: Twilight or Renaissance?, Leuven University Press 2000, pp. 59-77)
“Le forme di sapere utili a conoscere il contesto ne sono implicate originariamente e costitutivamente”(G.CREPALDI-S.FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, o.c., p.99).
L. UGALDE, Teologia y mediacion…cit. da G.BEDOGNI, o.c., p. 126
I. SANNA, “Il ruolo delle scienze umane in teologia”, in I. SANNA (ed.) Il sapere teologico ed il suo metodo, EDB, Bologna 1993., p. 143. Si veda anche I. SANNA, Immagine di Dio e libertà umana, Città Nuova, Roma 1996
V.CESAREO, “Scienze sociali e insegnamento sociale della Chiesa: aspetti epistemologici e metodologici”in AA.VV., Il Magistero sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1988
L’antropologia cristiana tiene conto che «in Cristo [...] ci è data un'immagine e un'interpretazione determinata dell'uomo, un'antropologia plastica e dinamica, capace di incarnarsi nelle più diverse situazioni e contesti storici, mantenendo però la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali e i suoi contenuti di fondo. Ciò riguarda in concreto la filosofia come il diritto, la storiografia, la politica, l'economia [...]. Incarnare e declinare nella storia - per noi nelle vicende concrete dell'Italia di oggi - questa interpretazione cristiana dell'uomo è un processo sempre aperto e mai compiuto» ( Intervento conclusivo di S. E. Card. Ruini al III Convegno ecclesiale di Palermo (20-24 novembre 1995), in Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, p. 196).
Per questa problematica ci permettiamo di rimandare a G.MANZONE, Libertà cristiana e istituzioni, Mursia-PUL, Roma 1997, pp.36 ssg.
E’ questo il contributo fondamentale dell’individualismo metodologico, dove la decisione è per definizione l'affermazione di una libertà rispetto ai sistemi di cui fa parte l'attore, contrariamente a quel che propongono le spiegazioni in base alla tradizione. Senza il postulato di questa libertà il termine «decisione» non ha più alcun senso.
Questa posizione è bene illustrata da R. Boudon (Il senso dei valori, Il Mulino, Bologna 2000) attraverso uno schema fatto di cerchi concentrici, dove si passa progressivamente dal modello razionale utilitario, al centro, all'impulsivo e all'irrazionale, alla periferia. Essa sembra dimenticare la penetrante conclusione di Simmel nella sua analisi del denaro: «[il puro pensiero razionale] può soltanto fornire i mezzi (...), è completamente indifferente al fine pratico che li sceglie e li realizza» (G.SIMMEL, La differenziazione sociale, Laterza , Bari 1995, p. 559).
Per Boudon esistono due modi di spiegare i fenomeni sociali; o ci si richiama alle consuetudini, alla mentalità, alla tradizione; e si nega così la libertà degli attori pur non facendo spesso altro che proiettare sul soggetto osservato i ragionamenti propri del contesto dell'osservatore; oppure si cerca di comprendere, e si è allora portati a cercare le «buone ragioni» che hanno portato un dato soggetto ad adottare tale comportamento, o ad avere questa o quella credenza (R.BOUDON, A lezione dai classici, Il Mulino, Bologna 2002).
Si evita in tal modo sia la deduzione delle istituzioni con procedimento essenzialistico, sia la loro produzione tramite fittizi consensi universali, sia la loro imposizione per divina rivelazione positiva.
A.SCHULZ, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt. Eine Einleitung in die verstehende Sociologie, Suhrkamp, Frankfurt 1991 p.204, cit. da A.GOMEZ-MULLER, Ethique, coexistence et sens , Desclèe de Brower, Paris 1999, p.187
M.Weber distingue la “relazione di valore” dal “giudizio di valore”. La "relazione di valore " è il rapporto tra certi ordini di rilevanza - le cose che riteniamo importanti in un fenomeno - e certi valori "universali". Se vogliamo comprendere fenomeni come la società capítalistica, la secolarizzazione della politica, l'affermarsi di una mentalità scientifica, non possiamo non ordinare e selezionare l'infinità di aspetti di cui ciascuno di questi fenomeni consiste secondo alcuni ordini di priorità che fanno riferimento a valori - nel caso del capitalismo, ad esempio, valori di efficienza, produttività, autonomia della ragione, autodeterminazione morale della persona, e così via. Questi valori orientano la nostra attività di ricerca ma non sono valori "privati". Non sono dei valori a cui privatamente possiamo dedicare nostre energie (come fa chi crede nell'eguaglianza, nella difesa dell'ambiente, o nella lotta contro la criminalità organizzata). Al contrario sono dei valori "istituzionalizzati", "cristallizzati" nella formazione sociale e culturale entro cui si iscrive il fenomeno da comprendere, costituiscono un orizzonte la cui comprensione è condicio sine qua non della comprensione del fenomeno stesso. Quindi questo tipo di "relazione con il valore", di "valorialità" non pregiudica l'oggettività della conoscenza sociologica, non comporta che i risultati della nostra indagine siano soggettivi nel senso di valere per alcuni e non per altri. La verità scientifica, afferma Weber, « è soltanto ciò che esige di valere per tutti coloro che vogliono la verità» (Cit da A.FERRARA-M.ROSATI, Affreschi della modernità, Carocci, Roma 2005,, o.c., p.190).
Diverso è il caso del "giudizio di valore", da cui il ricercatore è tenuto ad astenersi nel nome della "avalutatività" - il giudizio di valore è un giudizio, che per Weber rimane insindacabilmente soggettivo, sulla priorità di un valore (ad esempio la libertà) rispetto a un altro (ad esempio l'eguaglianza).
Weber non risolve la tensione che rimane implicita nel suo pensiero. Se non esistono valori oggettivi, in ultima analisi anche quelli impliciti nella relazione di valore sono in qualche modo arbitrari, benché socialmente condivisi.
A. FERRARA, “iI progetto di una filosofia sociale” in AA.VV.Pensare la società, Carrocci, Roma 2001, p.19-40.
Tale posizione è detta naturalismo da R.J.BERNSTEIN. La ristrutturazione della teoria sociale e politica, Armando, Roma 1980 e da A.SCHUTZ, La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna 1974. Il naturalismo è insufficiente in quanto da semplicemente per scontata questa realtà sociale, quale fondamento presupposto ma non chiarito delle scienze sociali. Esso non spiega il modo in cui questa realtà sociale si costituisce e permane, non spiega il suo essere intersoggettivo, nè come coloro che agiscono in essa interpretano, col pensiero e col senso comune, le loro azioni e quelle degli altri. Cfr anche P.DONATI, Introduzione alla sociologia relazionale, Angeli, Milano 1986
Anche in questo caso troviamo varie versioni del paradigma. La versione weberiana è filtrata attraverso una sofisticata argomentazione filosofica intorno al nesso tra indagine scientifica e valori, e intorno alla possibilità dell'oggettività nelle scienze sociali.
Esiste poi una versione "microsociologica" del paradigma, in cui l'esercizio ermeneutico viene prevalentemente applicato alla dimensione dell'interazione faccia a faccia. È il progetto metodologico sotteso agli approcci di Mead, di Garfinkel, di Goffman (A.FERRARA-M.ROSATI, Affreschi della modernità, o.c., p.172ssg.).
P.JEDLOWSKJ, “Sull’etica la critica e la memoria” in C.VIGNA, a cura di , Etiche e poltiche della postmodernità, Vita e Pensiero, Milano 2003, p.125-137
Espressioni come "sacralità della vita umana" o "dovere morale" suonano estranee tanto in un seminario di sociologia quanto nelle stanze asettiche di un ufficio burocratico.
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Il termine disfunzionale assume allora un’accezione di valenza negativa, per es. in T.PARSON, Il sistema sociale, Comunità, Milano 1965.
A.FERRARA, “Etica e teoria sociale, tre punti di intersezione” in C.VIGNA, a cura di , Etiche e poltiche della postmodernità, o.c., pp.33-62
Nelle società pluralistiche l’ordinamento politico tende a fondarsi non sul consenso sostanziale circa i valori ultimi bensi sull’affermazione di procedimenti formali di regole procedurali escludendo le questioni ultime della politica.
Ne deriva che la filosofia deve affrontare le sfide che le lanciano le formulazioni teologiche perché è nella filosofia che la situazione umana fondamentale è stata più radicalmente pensata (H.PEUKERT, “Agir communicationnel, systèmes de l’accroisement de puissance et le projet inachevè des Lumières et de la teologie” in E.ARENS ed., Habermas et la teologie, Du Cerf, Paris 1993 ). Perdendo la questione di Dio e della sua trascendenza la ragione si mutila e questo pregiudica la riflessione sociale in generale.
G.L.BRENA, “Per una filosofia sociale di ispirazione cristiana” in AA.VV., Pensare la società, o.c., p.197ssg.
L'interpretazione del mondo della vita come chiuso su se stesso rende difficile a Habermas non solo la comprensione delle tradizioni religiose, ma anche delle culture premoderne o dei "valori asiatici". Egli tende a vedere l'evoluzione culturale in termini di rottura radicale e considera il vissuto non come prerazionale, ma come posítívamente irrazionale e incompatibile con una razionalità comunicativa (J.HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986). Se si prende alla lettera (e nel suo senso più rigido) questa posizione di Habermas, il discorso su una possibile teoria sociale cristiana sarebbe finito prima di cominciare. Più aperto all’apporto delle tradizioni religiose Habermas si mostra nella celebre conferenza “Fede e sapere” in Il Regno 19(2001)653-656. Per un confronto teorico tra Habermas ed alcuni teologi tedeschi, cfr. E. ARENS (ED.) Hahermas e la teologia. Contributi per la ricezione e critica teologica della teoria dell'agire comunicativo, Queriniana, Brescia 1992.